Oltre 10 specie a rischio estinzione in Sardegna

Foto gipeto in volo in Sardegna

Diffuso il nuovo report Ministero dell’Ambiente-IUCN sulla fauna italiana. Nell’Isola peggiora la situazione per molti uccelli, sempre più in pericolo.

Falchi, averle, cormorani: in Sardegna oltre 10 specie a rischio estinzione

Tra qualche anno, senza adeguate politiche di tutela e conservazione, l’ambiente naturale della Sardegna potrebbe dire definitivamente addio ai grifoni. Oppure ai gipeti, all’averla cenerina, alle aquile, ai falchi. E, tra i mammiferi, all’orecchione.

Il ministero dell’Ambiente e Federparchi, in collaborazione con il Comitato Italiano dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) ha pubblicato in questi giorni la “Lista rossa dei vertebrati italiani”, che fotografa il rischio di estinzione delle specie che popolano le diverse regioni italiane. 

E scorrendo il lungo elenco di animali marini e uccelli presenti nel dossier, restano moltissimi – purtroppo – gli esemplari della fauna sarda che hanno visto peggiorare, rispetto al 2013, anno di preso come punto di riferimento, il proprio status, che in alcuni casi, da “vulnerabile” è passato a “Endangered”, ovvero ufficialmente in via d’estinzione. 

Nel dettaglio, per quanto riguarda le specie che popolano l’Isola, gli animali la cui popolazione ha visto un netto “peggioramento” – segnalato in rosso – sono una decina. 
Di seguito l’elenco: 

lo squalo gattopardo

o gattuccio minore (Scyliorhinus stellaris) che prima non era a rischio e che ora è stato inserito nella categoria “Near Threatened”, ovvero “Quasi minacciato”

l’orecchione sardo

che da “in pericolo” è classificato oggi come “a rischio estinzione”

l’averla cenerina

che nel 2013 era “Vulnerabile” e oggi è in via d’estinzione

la beccaccia di mare

passata da “Quasi minacciata” a “Vulnerabile”

il cormorano

 che era e resta “Critically endangered” (CR), ovvero in via d’estinzione ormai in maniera critica

il falco pescatore

passato anch’esso al preoccupante livello CR

la berta minore

la magnanina sarda

il martin pescatore

il passero solitario

l’uccello delle tempeste

la raganella tirrenica

In qualche caso, rispetto al 2013, ci sono stati dei miglioramenti. L’aquila del Bonelli, ad esempio, è passata da “Critically endangered” a “Endangered”, il grifone da “Critically endangered” a “Near Threatened”, ma è una magra consolazione.

Sempre riguardo le specie specificamente presenti in Sardegna, oltre all’orecchione, all’averla cenerina, al cormorano, al gipeto e al falco pescatore, a rischiare l’estinzione figurano:

l’averla capirossa

l’astore sardo

la gallina prataiola

E non se la passano bene nemmeno i falchi della regina, i falchi di palude, il tarabusino e il verdone, che erano e restano “Vulnerabili”.

«La ricca diversità di specie animali e vegetali presente in Italia è soggetta a minacce concrete dovute all’attività umana», si legge nel rapporto. «La densità media di popolazione umana è attualmente 202 abitanti/km quadrati, più alta della media della già popolosa Europa».

«Sebbene l’abbandono delle aree rurali in favore delle città abbia favorito la rinaturalizzazione di alcuni ambienti – aggiungono gli esperti che hanno lavorato al rapporto – il consumo di risorse naturali da parte della popolazione nelle città è cresciuto, così come l’intensificazione dell’agricoltura che ha ridotto o eliminato gli spazi naturali nelle aree coltivate, riducendone drasticamente l’idoneità per la fauna».

GLI SCENARI – «Attualmente, – prosegue il dossier – in Italia sono istituiti 24 Parchi Nazionali, 146 Parchi Regionali, 147 Riserve Naturali Statali, 32 Aree Marine Protette, circa 400 Riserve regionali, inoltre una vasta rete di siti protetti la maggior parte dei quali rientranti nella Rete Natura2000. Complessivamente, la superficie di territorio tutelato ammonta al 21%, includendo i Siti Natura 2000. A livello globale è stato dimostrato che le azioni di conservazione sono tuttora largamente insufficienti a contrastare l’aumento delle pressioni antropiche sulle specie animali e vegetali, e la conseguenza sono un deterioramento generale dello stato della biodiversità e un avvicinamento delle specie all’estinzione».

Di qui la necessità di aumentare il monitoraggio e, al contempo, mettere in atto politiche che rafforzino la tutela dell’ambiente e della fauna.

«L’estinzione locale è un fenomeno difficilmente reversibile, perché impone necessariamente costosi interventi di reintroduzione dagli esiti, spesso, incerti», dicono gli esperti. Aggiungendo: «Intervenire per conservare le specie prima che siano troppo prossime all’estinzione riduce i costi e aumenta le probabilità di successo delle azioni di conservazione».

Argo osserva il fenomeno da alcuni anni, e ha scelto la Sardegna come prima regione italiana ad ospitare un Argoland.
Le Argolands sono aree di tutela gestite secondo un concept ecologico olistico, che prevede l’inserimento di custodi ogni 5/10 ettari e l’avvio di attività volte alla riqualificazione sociale ed ecologica del territorio: sviluppo permacolturale, pascolo brado sinergico, eventi sociali di avvicinamento alla natura e benessere, vivai di riproduzione di semi antichi, agorà di conservazione e trasmissione di antiche arti, tecnologie di efficientamento idrico e ovviamente rigenerazione dell’equilibrio naturale (rewild) dei boschi.
Tutto ciò è reso possibile grazie alla community, coinvolta grazie all’innovativo sistema di tokenizzazione fondiaria sviluppato da Argo.
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Il Cervo sardo, salvato dall’estinzione in “zona Cesarini”

Nel 1970 si contavano solo 200/300 esemplari

Il Cervo sardo, dal rischio estinzione all’espansione

Ci sono storie che parlano di animali estinti, altre invece, che hanno il sapore della rinascita, come direbbe un telecronista sportivo, salvato in “zona Cesarini“.

Attenzione, ancora oggi non si può affermare che il Cervo sardo non rischi più l’estinzione, ma un censimento del 2018 ha indicato in più di 13.000 il numero dei capi presenti in Sardegna e in Corsica.

Storia di una “rinascita”

Fino al XIX secolo la popolazione di cervo sardo corso viene descritta come “comune e abbondante” in entrambe le isole.

La drastica diminuzione delle aree forestali permessa dalla prima legge forestale italiana, la frammentazione del territorio, l’aumento del numero degli incendi, la caccia e la conflittualità nell’utilizzo delle risorse naturali con l’agricoltura e l’allevamento fecero ridurre all’inizio degli anni Cinquanta la popolazione di Cervo Sardo Corso a sole tre aree, l’Arburese, il Sulcis ed il Sarrabus, nonostante il regio decreto 1016/1939 avesse introdotto il divieto totale di caccia al cervo in Sardegna.

Alla fine degli anni sessanta fu inserito nella “Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura” con una popolazione stimata fra i 100 ed i 200 esemplari in Sardegna, mentre nel 1969 si estingueva completamente in Corsica (quando fra il 1967 ed il 1969 morirono gli ultimi 4 esemplari che vivevano nella riserva nazionale di caccia di Casabainda).

La completa estinzione della specie in Corsica fece suonare un forte campanello di allarme in Sardegna.

Negli anni settanta il primo censimento attendibile stimò una popolazione superstite di 90 maschi bramenti equivalenti a 250-300 esemplari.

La salvaguardia dall’estinzione di questa specie ha la sua pietra miliare nella metà degli anni ottanta, con l’acquisizione della Riserva di Monte Arcosu da parte del WWF Italia.

L’opera di tutela dell’associazione, affiancata dall’attività di allevamento e ripopolamento attuata dall’ex Azienda Foreste Demaniali della Sardegna, ha permesso di allontanare lo stato d’emergenza consentendo l’incremento della popolazione nel territorio del Sulcis e la sua reintroduzione negli areali del Sarrabus e del Monte Linas e, recentemente (2003), nella stazione forestale del Monte Lerno e in Corsica (Quenza e Casabianda – dove i primi 4 esemplari furono trasferiti nel 1985).

Negli anni si sono susseguiti tentativi di ripopolamento di altre aree, in particolare nella Barbagia, e nel Gerrei.

Nell’opera di salvaguardia sono stati coinvolti diversi organismi pubblici o privati.

Alle azioni dell’Ente foreste della Sardegna, dell’Università di Cagliari, del WWF Italia si sono affiancati nel tempo gruppi di volontari e associazioni che operano in contesti locali.

Dal 1989, a Guspini opera l’associazione Elafos, che si occupa della salvaguardia di questa specie nell’areale di Montevecchio – Costa Verde, eseguendo un censimento annuale della popolazione.

Un censimento del 2005 stimava una popolazione di oltre 6.000 esemplari allo stato libero in Sardegna.

A questi si aggiungevano la popolazione in Corsica, che si stimava essere di circa 150 esemplari.

Un censimento effettuato dalla Regione Sardegna nel 2014 ha stimato la presenza di 4.270 esemplari nelle sole foreste demaniali, in aumento numerico e in espansione territoriale.

A tale popolazione va aggiunta quella presente in Sardegna fuori dalle foreste demaniali (non nota) e quella in Corsica, stimata nello stesso anno in almeno 1.000 esemplari, in rapido aumento.

Nel convegno finale del progetto Life finanziato dall’Unione europea, che si è svolto nel marzo 2018, sono state comunicate le stime della popolazione di cervo:

  • almeno 10.635 esemplari in tutta la Sardegna;
  • almeno 2.534 esemplari in tutta la Corsica;

per un totale pertanto di almeno 13.169 esemplari.

Entrambe le popolazioni sono in incremento demografico e in espansione geografica.

Il cervo sardo-corso in Italia è fra le specie particolarmente protetta a livello nazionale e regionale.

Origine

Come detto in precedenza, la sottospecie è endemica della Sardegna e della Corsica.

L’origine del cervo sardo non è ancora stata del tutto chiarita.

L’ipotesi più accreditata è quella di Azzaroli e Baccetti che attribuiscono la presenza della sottospecie ad un’introduzione da parte dell’uomo in epoca preistorica di C. elaphus, originario delle regioni neartica e paleartica, e una sua rapida speciazione in C. elaphus corsicanus.

Nell’archeologia, protomi di cervi ornano navicelle nuragiche dell’ VIII – VI sec. a.C. e spade votive della stessa epoca, con stilizzate figure di cervo, venivano offerte alle divinità.

Fonte:NotizieSarde.it

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Il Prolagus Sardus – Animali estinti della Sardegna

Il Prolagus Sardus, meglio conosciuto come prolago sardo, era un piccolo mammifero lagomorfo ormai estinto, appartenente alla famiglia Prolagidae.

Esistono numerose specie appartenenti al genere Prolagus, tutte vissute principalmente in Europa, Asia minore e Nord Africa a partire dal Miocene.

La specie Prolagus Sardus, ultima del suo genere, era presente in Sardegna, Corsica e isole minori a partire dal Pleistocene inferiore e la sua estinzione avvenne molto probabilmente in epoca romana.

Si suppone però che il Prolagus Sardus potesse essere sopravvissuto anche in seguito, addirittura fino alla seconda metà dell’800in alcune piccole isole vicine alla Sardegna, come Tavolara.

Questo fu possibile anche grazie all fatto che l’isola di Tavolara in particolare, fu disabitata per secoli fino al 1780 circa.

In base ai ritrovamenti fossili il Prolagus Sardus si potrebbe definire un lontano cugino dell’attuale coniglio.

Oltre le dimensioni 25 cm di lunghezza per circa 800g di peso, si presume avesse delle orecchie piccole e rotonde come i Pika, una coda molto corta che restava nascosta sotto il pelo, e arti anteriori poco più piccoli di quelli posteriori.

La struttura scheletrica completa di Prolagus Sardus fu ricostruita tra il 1966 e il 1969, grazie ai numerosi ritrovamenti di ossa nella grotta di Corbeddu nei pressi di Oliena.

A partire da tali resti, i  ricercatori sardi, guidati da  Bruno Piredda, uno dei fondatori del “Gruppo Grotte Nuorese“, e dalla paleontologa statunitense Mary Dawson, furono in grado di ricostruire, con buona accuratezza, una riproduzione in gesso di come doveva apparire l’animale in vita, esso appare molto più tozzo e robusto rispetto alle specie di lagomorfi viventi, più somigliante ad una sorta di via di mezzo fra un grosso coniglio selvatico ed un pika.

Il Prolago Sardo inoltre costituiva una ricca fonte di cibo per tanti predatori animali del pleistocene, ma anche per l’uomo. Infatti la presenza sul territorio del Prolago Sardo facilitò notevolmente l’insediamento delle prime comunità umane dell’isola.

Il Prolago Sardo si estinse molto probabilmente a causa dell’introduzione nell’isola di nuovi predatori, come cani, gatti e piccoli mustelidi, e competitori ecologici, come conigli e lepri.

Non è da escludere però anche un’altra causa riconducibile all’estinzione del piccolo mammifero, ovvero la trasmissione di agenti patogeni da parte dei conigli e delle lepri introdotte in Sardegna e Corsica dai Romani.

fonte: NotizieSarde.it

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Gli scienziati in Israele stanno coltivando palme da datteri da semi di 2000 anni

I semi scoperti nel deserto della Giudea sono sia maschili che femminili, il che aumenta la possibilità di produrre datteri. I ricercatori hanno piantato e coltivato con successo una manciata di semi di datteri da frutti maturati intorno al tempo di Gesù nel sud di Israele.

I semi, noti come Adamo, Giona, Uriel, Boaz, Giuditta e Anna, furono scoperti tra molti altri in siti archeologici nel deserto della Giudea.

Non è la prima volta che il team coltiva semi antichi: nel 2008, hanno riferito di aver germinato un seme di palma da datteri della Giudea di 1.900 anni da Masada, un antico sito ampliato da Erode il Grande nel I secolo a.C. che si affaccia sul Mar Morto. Quella pianta, un maschio, fu chiamata Methuselah dal personaggio più antico della Bibbia.

Tuttavia, il nuovo studio va oltre, coinvolgendo non solo più semi, ma anche facendo luce su come gli agricoltori della Giudea potrebbero aver coltivato le famose piante. Con i semi appena germinati contenenti femmine, il team spera di applicare il polline di Matusalemme ad Hannah, che dovrebbe produrre un fiore entro i prossimi due anni, con l’obiettivo di produrre datteri.

Methuselah the Judean Date Palm sta ancora andando forte anche dopo essere germogliato da un seme di 2000 anni. Di Benjitheijneb (opera propria)  tramite Wikimedia Commons

Con i semi appena germinati contenenti femmine, il team spera di applicare il polline di Matusalemme ad Hannah, che dovrebbe produrre un fiore entro i prossimi due anni, con l’obiettivo di produrre datteri.

Tuttavia, potrebbe non essere una vera risurrezione.

“Non sarà un tipico appuntamento della Giudea”, ha spiegato la dott.ssa Sarah Sallon, direttrice del Centro di ricerca sulla medicina naturale Louis Borick presso l’Organizzazione medica Hadassah di Gerusalemme. “Sono cloni di femmine molto produttive.”

Si pensa che le palme da datteri siano state coltivate per la prima volta più di 6.000 anni fa in Arabia e Mesopotamia (ora Iraq), e un tempo erano comuni nell’antica Giudea, una regione del Levante. Erano usati per trattare una varietà di condizioni mediche, tra cui depressione e scarsa memoria, oltre ad essere un alimento importante, secondo Sallon. “I datteri erano un’enorme esportazione dalla Giudea ed erano famosi”, ha spiegato.

Da Plinio il Vecchio a Erodoto, gli scrittori hanno esaltato le virtù dei datteri giudei, come la loro lunga conservazione, che ne ha permesso il trasporto in lungo e in largo. “Ogni anno, Erode li presentava all’imperatore a Roma”, ha spiegato Sallon.

Tuttavia, le piante soffrirono di secoli di disordini e nel diciannovesimo secolo le piantagioni erano scomparse.

Sallon e colleghi descrivono come hanno piantato 32 semi di palma da datteri della Giudea recuperati da siti archeologici in tutto il deserto della Giudea nella rivista Science Advances. Questi includono Masada e le grotte di Qumran, che sono meglio conosciute per nascondere i Rotoli del Mar Morto ma erano anche utilizzate dai rifugiati nei tempi antichi.

“Ho passato ore e ore a raccogliere i migliori semi nel dipartimento di archeologia”, ha spiegato Sallon. “Molti di loro avevano buchi di insetti o si erano rotti, ma alcuni erano davvero incontaminati, e ho scelto i migliori.”

Sei dei semi germinarono. Si scoprì che Hannah e Adam erano tra il I e ​​il IV secolo a.C., sulla base della datazione al radiocarbonio di frammenti di conchiglia lasciati dopo la germinazione. Uriel e Giona sono stati datati tra il I e ​​il II secolo d.C., mentre Giuditta e Boaz sono stati datati a un periodo di 200 anni a partire dalla metà del II secolo a.C.

“Sono ebreo, quindi ho dato loro nomi ebraici”, ha spiegato Sallon, aggiungendo che Adamo si chiamava Eva prima che il sesso delle piante fosse determinato attraverso l’analisi genetica.

Alcuni semi sono germogliati in settimane, mentre altri hanno impiegato sei mesi. “Stavamo per arrenderci quando sono apparsi”, ha spiegato.

Si scoprì che gli antichi semi di datteri erano più grandi di quelli delle moderne palme da datteri coltivate e delle piante selvatiche. “I semi di oggi sono ancora circa il 30% più piccoli di quelli che crescevano in Giudea 2000 anni fa”, ha spiegato Sallon.

L’analisi genetica ha rivelato che più vecchi erano i semi antichi, più “orientale” sembrava essere il loro corredo genetico: Adam e Methuselah sono molto simili alle varietà del Golfo dei giorni nostri.

Secondo Sallon, ciò potrebbe essere dovuto al tipo di alberi che crescevano naturalmente in Giudea all’epoca, oppure potrebbero essere stati portati nel Mar Rosso dall’Arabia attraverso un’antica rotta commerciale. Hannah e Judith sono più simili alle moderne varietà irachene, che Sallon ritiene possano essere correlate al ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese alla fine del VI secolo a.C., molti dei quali avevano lavorato nelle piantagioni di datteri babilonesi e potrebbero aver portato con sé piante.

Nel frattempo, Uriel, Boaz e Jonah hanno ricevuto un contributo genetico significativo dalle varietà a ovest dell’Egitto ed erano geneticamente più simili alle moderne varietà marocchine. “L’occupazione romana [della Giudea] iniziò nel I secolo, ed è possibile che all’epoca portassero varietà di datteri dal Nord Africa”, ha spiegato Sallon.

FONTE: HASSAN JASMIN

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Biodiversità e seedsaving: i fondamenti della democrazia alimentare

Seedsaving

Dobbiamo riprenderci il diritto di conservare i semi e la biodiversità.
Il diritto al nutrimento e al cibo sano.
Il diritto a proteggere la terra e le sue specie
”.

Così afferma la dottoressa Vandana Shiva, scienziata, ambientalista, scrittrice e filosofa, annoverata tra i teorici dell’ecologia sociale, una corrente di pensiero che unisce temi ecologisti sociali e politici, rilevando la necessità di un cambio di paradigma nell’uso delle risorse del nostro pianeta, il quale sarebbe capace di nutrire tutti se la sua natura venisse rispettata e l’uguaglianza tra gli uomini fosse effettiva.
Nel brano tratto dal testo “Vacche sacre e mucche pazze“, Vandana Shiva suggerisce infatti la necessità di “fermare il furto delle multinazionali a danno dei poveri e della Natura. La democrazia alimentare è al centro dell’agenda per la democrazia e i diritti umani, al centro del programma per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale (…) Il punto non è quanto le nazioni ricche possono dare, il punto è quanto meno possono prendere“.

L’uomo e la natura hanno convissuto in armonia fin dall’antichità, rispettando per lo più le reciproche misure. A partire dalla Rivoluzione Industriale, poi, con l’uso del carbone e lo sfruttamento delle risorse fossili ed, in seguito, nel secondo dopoguerra, con la cosiddetta “Rivoluzione Verde“, gli equilibri uomo-natura sono drasticamente cambiati, a discapito maggiormente delle risorse naturali e della situazione climatica.

Avviatasi negli anni ’40 tramite una ricerca messicana sponsorizzata dalla Rockefeller Foundation ed eseguita dal genetista americano Norman Borlaug, con l’intento di creare sementi ad altissima resa per ettaro, la Rivoluzione Verde apportò un drastico cambiamento nella gestione dell’agricoltura per come fino ad allora era stata concepita. Tale ricerca condusse infatti alla creazione di nuovi ibridi, nuove tecnologie agricole e all’utilizzo di fertilizzanti chimici e pesticidi, tanto che nell’immediato si credette di aver trovato la soluzione al problema della fame nel mondo ed a Borlaug nel 1970 fu conferito il premio Nobel per la pace.

Così, con la spinta delle multinazionali e l’avallo dei governi e delle grandi istituzioni come Onu e Fao, l’agricoltura intensiva venne esportata  in tutto il mondo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo come India e Pakistan dove fu introdotta a partire dagli anni Sessanta.
In principio i contadini, allettati da copiosi raccolti e facili guadagni, si illusero che abbandonare le tecniche tradizionali e le sementi antiche, sapientemente tramandate e selezionate in base al territorio e al clima, potesse essere la soluzione alla loro povertà. Il fervore apportato dalla novità che avrebbe risolto la fame nel mondo non permise loro di riconoscersi dipendenti dall’acquisto di prodotti chimici e sementi OGM; oltre ad essere dannosi per la natura, questi prodotti si sono rivelati funesti anche per gli agricoltori stessi che, talvolta per aver subìto la perdita di raccolti dovuta a cause naturali, perdettero tutto ed alcuni addirittura si suicidarono per l’incapacità di coprire i debiti contratti per gli acquisti.

Durante gli anni ’70 agli studiosi più attenti fu già evidente che il nuovo paradigma agro-economico a lungo termine avrebbe portato ad una catastrofe ecologica senza precedenti. L’agricoltura “moderna”, infatti, caratterizzata da monocolture ed allevamenti intensivi, ha come sue proprie conseguenze l’impoverimento del suolo, l’avvelenamento delle falde acquifere e dell’aria, la necessaria deforestazione massiccia e conseguente distruzione di interi ecosistemi, inclusa l’estinzione o quasi di molte specie sia animali che vegetali.

Proprio alla fine degli anni ’70, Vandana Shiva, di cui si faceva menzione ad inizio articolo, tornata in India dopo aver conseguito diversi titoli di studio in ambito scientifico all’estero, assume il ruolo di ricercatrice in politiche ambientali ed agricole presso l’Indian Institute of sciences e presso l’Indian Institute of management. Essa si accorge dei disastri conseguiti dalla Rivoluzione Verde nel suo paese e decide di mettere tutto il suo impegno ed il suo sapere al servizio della salvaguardia dell’agro biodiversità, salvaguardia che ancora oggi sembra essere l’unica risposta ai problemi alimentari e all’emergenza ecologica del pianeta.
Nel 1982, in India, Vandana Shiva istituisce la Research Foundation for Science Technology and Natural resource policy, una fondazione che si occupa proprio di ecologia sociale e, nel 1987, crea Navdanya (lett. “9 semi”, in hindi) l’organizzazione che dà origine al “Movimento per la difesa della sovranità alimentare, dei semi e dei diritti dei piccoli Agricoltori in tutto il mondo” (cfr. navdanyainternational.it per saperne di più).

La dottoressa Vandana Shiva non si ferma solo alla creazione dei suoi centri di ricerca ma si impegna a portare le sue conoscenze e le sue esperienze in tutto il mondo, partecipando a conferenze e convegni come relatrice ed attivista contro quella che lei definisce la biopirateria delle multinazionali: l’appropriazione di sementi e tecniche antiche rese di fatto non più disponibili gratuitamente e liberamente a tutti.
Nel 1995 la dottoressa Shiva crea la fattoria di Navdanya per la “conservazione della biodiversità”, un luogo dove finalmente le sue teorie vengono messe in pratica conservando i metodi tradizionali per abbinarli ai princìpi dell’agroecologia e dell’Agricoltura biologica.
Anche questo progetto è un successo: il frutto dell’impegno della nostra in tema di libera conservazione delle sementi e biodiversità, collegato a democrazia e giustizia sociale, supera i confini dell’India per spostarsi all’estero, prima nelle zone più povere e sfruttate del pianeta e poi in tutto il resto del mondo.

Nel 2003, Vandana Shiva con attivisti, politici, studiosi, accademici, agricoltori e scienziati da tutto il mondo, in collaborazione con l’allora Presidente della Regione Toscana Martini, istituiscono la Commissione internazionale per il futuro dell’alimentazione e dell’Agricoltura con l’intento di “rendere maggiormente visibili le valide alternative sostenibili all’attuale sistema agro-alimentare controllato dalle grandi multinazionali dell’agrochimica, basato sulle monocoltura e strutturato sulle esportazioni” e “rafforzare il movimento globale per la difesa dei semi tradizionali e di sistemi alimentari virtuosi e sani“.
Sicuramente, l’attenzione verso i temi promossi dalla commissione, la quale ha anche sottoposto i suoi manifesti sulla biodiversità a varie conferenze dell’ONU, è aumentata sia da parte dei media che da parte delle istituzioni stesse, le quali dichiarano il 2010 “Anno Internazionale della Biodiversità”, proprio con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica e politica verso questi temi. I risultati ottenuti dall’Anno della Biodiversità, secondo la dottoressa Shiva, non sono stati soddisfacenti dal punto di vista socio-politico, e lo dice chiaramente nei suoi scritti.
Il vantaggio è stato che molte  persone  hanno avuto accesso a maggiori informazioni anche sulle dinamiche che pongono biodiversità ed alimentazione in relazione con democrazia e salute.

L’informazione di massa su questi temi è stata ulteriormente rafforzata dall’evento dell’Esposizione Universale (Expo 2015) tenutasi a Milano intorno alla tematica del “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, durante la quale si è ampiamente dibattuto riguardo la necessità di un nuovo paradigma agroalimentare che preservi le risorse del pianeta nutrendo tutti senza danneggiare l’ecosistema.

Nel frattempo, sulla scia dell’esempio di Navdanya, a tutte le latitudini hanno iniziato a nascere movimenti di seed savers, letteralmente “salvatori di semi”. I seed savers sono persone che, sia  per cultura contadina che per desiderio di salvare e tramandare ai propri figli le tradizioni del proprio territorio, preservando per loro sapori non omologati come quelli della produzione intensiva, si impegnano a fare ricerca di sementi antiche non trattate per conservarle e riprodurle attraverso sistemi strettamente biologici.
In Italia, per esempio, si pone molta attenzione riguardo al tema dell’alimentazione e della biodiversità anche a livello politico; Vandana Shiva, infatti, è consulente della regione Toscana in tema di politiche agricole.

Non sono notevoli solo i movimenti mondiali, sono soprattutto le persone comuni ad essere più attente all’ecologia e a volersi alimentare in modo etico e sostenibile, quindi sempre più spesso cercano di acquistare prodotti biologici e dalla provenienza accertata. Ma non solo: negli ultimi anni sono state fondate molte associazioni per lo scambio di semi, e alcune di esse organizzano anche corsi per diventare seed savers. Durante questi corsi  si insegna a fare ricerca di sementi sul territorio e si tramandano le tecniche per la loro  riproduzione e conservazione.
Molti giovani, spesso provenienti da differenti esperienze lavorative, si stanno accorgendo del potenziale della produzione agricola biologica e sostenibile, e si stanno impegnando nel recupero e utilizzo di sementi e sistemi antichi di coltivazione, in modo da saper garantire alimenti biologici, di qualità e dall’elevato valore nutrizionale.
Anche se timidamente, possiamo dire che all’orizzonte si intravveda quel cambio di paradigma tanto auspicato da coloro che, come la dottoressa Shiva e i seed savers, ritengono che il diritto alla biodiversità, alla conservazione dei semi e all’agricoltura biologica e sostenibile per la Natura siano sinonimo di democrazia.


[argoname: Kripazia]

Leggi Argo Brief per approfondimenti sul progetto.

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